
Immagine da The Phantom Thread (2017) di Paul Thomas Anderson
C’era un tempo un’istanza altmaniana nel cinema di Paul Thomas Anderson. Era un’istanza costituita attraverso la mutuazione da un certo Altman – quello di America oggi e Un matrimonio, ma anche de I protagonisti, Nashville e, ante litteram, di Radio America – di un cinema fatto di collettività e di provincia, di moltiplicazioni narrative coniugate con buona eleganza. Da quella istanza nascevano Sydney, solido film d’esordio, forse troppo “indipendente, e i primi capolavori, Boogie Nights e Magnolia, fino alle sfumature romantiche di Ubriaco d’amore, un detour che lo congedava (forse) definitivamente dal maestro.
Il parricidio si compiva, però, con i capolavori della seconda fase, Il petroliere e The Master. Cantati entrambi dalle musiche notturne e demoniache di Jonny Greenwood, ridimensionavano notevolmente le quantità di narrativa in gioco per moltiplicare esponenzialmente la quantità di cinema, mostrando, forse chiaramente per la prima volta, la cifra stilistica e cinematografica del suo autore. Studi di persona trasformati lentamente in gigantomachie (dando a Dano, Hofman, Day-Lewis e Phoenix i migliori personaggi delle loro carriere), inseriti in contesti sedimentati sulla disperazione – cui nessun drenaggio sfugge – e trasfigurati in finali irrisori in quanto disarmanti. Studio di persona rappresentato anche da, seppur parzialmente, Vizio di forma, che riprende Altman e lo droga attraverso Thomas Pynchon, in un progetto sicuramente in parte interlocutorio, ma dall’esito felice e godurioso.